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una strana miscela di risentimento e ammirazione per Polidori, che irrigidiva ogni
sua parola e la rendeva difficile da pronunciare.
Ha detto: «E che è un vampiro, cazzo, non ce ne sono in giro tanti come lui. Ha
questa tecnica, no, come quando fa la corte a una donna e la fa sentire una regina e la
fa sentire al centro dell'universo e poi se la scopa. Solo che lo fa con tutti, e sempre
in un modo leggermente diverso, a seconda di cosa gli interessa. Non riesce ad avere
rapporti normali con nessuno, non riesce ad avere dei rapporti di lavoro o di amicizia
e basta. Ha bisogno di conquistarti, cazzo, e dopo che ti ha conquistato ti succhia il
sangue e ti fa diventare una specie di sua proprietà. E gentile, anche, quando gli va,
non è che solo ti prenda delle cose. E anche se sai benissimo che figlio di puttana è, ti
frega ogni volta. Puoi corazzarti finchè vuoi e giurare che non ci caschi più, e poi
appena ti rivolge la parola e ti guarda in quel suo modo sei fregato da capo».
«Ma sei sicuro di conoscerlo così bene?», gli ho chiesto, pensando a quanto i
miei rapporti con Polidori erano diversi da quelli che descriveva lui; a quanto il suo
punto di vista mi sembrava deformato dalla frustrazione.
«Chi è che lo conosce bene», ha detto Bedreghin. «Certo non sono mai stato culo
e camicia come te, non mi ha mai invitato a casa sua in campagna o roba del genere.
Però ci siamo visti un sacco. Per quasi un anno gli ho fatto da autista, anche, quando
aveva deciso di non guidare più. Mi diceva vieni a prendermi che così parliamo di
lavoro, e andavo a prenderlo e magari non mi rivolgeva neanche la parola e dovevo
scarrozzarlo da un punto all'altro di Roma, da qualche sua donna o per qualche altro
traffico».
Ma non avevo nessuna voglia di sentir parlare di Polidori in modo così meschino
e invelenito; e anche se era vero che Polidori l'aveva trattato da autista e da scrivano
mi sembrava che Bedreghin potesse già ringraziare. Non credevo a nessuna delle sue
rivelazioni da mitomane della notte prima; non avevo voglia di sentire oltre la sua
cantilena lamentosa.
Gli ho detto: «Senti, non mi interessano queste storie».
Lui mi ha guardato con i suoi occhi ipocriti, ha detto: «Ochei, ochei. Che
paladino».
Ho finito gli ultimi spaghetti collosi e ho lavato il mio piatto e la mia forchetta,
sono tornato in camera a lavorare. Alle dieci ho provato a telefonare a Maria. Avevo
il sangue avvelenato all'idea che lei fosse in qualche punto di Roma con Luciano
Merzi, a dargli o chiedergli spiegazioni e cercare di riconciliarsi con lui, rimettergli a
disposizione la sua vita. Non era in casa. Poi ho richiamato ancora, a intervalli di
mezz'ora. Facevo il numero e aspettavo di raggiungere la linea attraverso gli scrocchi
e scatti di linee estranee, quando finalmente sentivo il segnale mi si rallentava il
cuore. Aveva un suono diverso dagli altri: una piccola voce individuale di vecchio
telefono, l'avrei riconosciuto tra mille altri. Ma lei continuava a non esserci;
continuavo a mettere giù dopo le sue prime parole registrate, tornavo al mio libro.
A mezzanotte ho deciso di provare un'ultima volta, sfinito com'ero dall'ansia e
dai tentativi a vuoto e dalla fatica di riscrivere la mia storia.
E venuta a rispondere lei: ha detto: «Si?», nel suo solito modo quasi allarmato.
Le ho detto: «Volevo solo salutarti». Cercavo di avere un tono amichevole e
sereno, mi rendevo conto di quanto fosse patetico a quell'ora.
Maria ha detto: «Sono appena rientrata. Me ne vado a letto».
Aveva una voce nitida di autonomia, non mi ha per niente rasserenato che
almeno fosse a casa. Le ho chiesto: «Non potrei fare un salto a trovarti? Solo cinque
minuti».
«Sono troppo stanca», ha detto lei.
Mi è sembrato di sentirla sbadigliare, e la sua voce era così autonoma da farmi
venire una paura improvvisa che fosse appena tornata da casa di Luciano Merzi o che
lo stesse aspettando, o che lui fosse già li ad ascoltare la telefonata.
Ho insistito senza nessuna dignità , senza tenere minimamente conto dei consigli
di Polidori: le ho detto: «Solo cinque minuti. Poi vado via subito».
Ma il mio tono di disperazione insistente l'ha solo fatta indurire; ha detto: «No
guarda, ho un sonno da morire».
«E domani?», le ho chiesto io.
«Domani non posso», ha detto lei. «Devo andare a Terni a parlare con un
regista».
Le ho chiesto: «Ma quando torni a Roma?».
«Credo tardissimo», ha detto lei. «E un brutto periodo, guarda, ci sono due o tre
lavori in ballo e sono presa da morire».
Parlava come se fossimo due conoscenti o vicini di casa: solo poco più veloce e
nervosa che in una conversazione del tutto neutra. Ero spiazzato dal suo modo di
fare, non sapevo come prenderla; le ho detto: «Allora magari ti chiamo lunedì?».
«Se hai voglia prova», ha detto Maria. E avrei voluto chiederle se ne aveva
voglia lei, ma dalla sua voce non mi sembrava molto.
L'ho salutata, sono rimasto sdraiato piatto sul letto, a guardare il soffitto
pseudogotico e cercare di capire.
Domenica alle otto di sera avevo riscritto altre sei pagine del mio romanzo, ma
molto a fatica. Andavo avanti in modo discontinuo, interrotto dalle immagini e dai
ricordi tattili di Maria che mi erano rimasti dentro, dal suo odore di pane e miele che
mi sembrava di sentire ancora tra le lenzuola del mio letto; dal freddo del suo tono
quando le avevo telefonato la notte prima. Dovevo fare uno sforzo per staccarmi da
queste sensazioni e tornare all'atmosfera ricostruita e filtrata della mia seconda
versione; e avrei rinunciato all'atmosfera e a scrivere senza neanche pensarci, se solo
Maria si fosse fatta viva. Adesso che fuori era buio la nostalgia fisica mi sembrava
quasi insopportabile; continuavo a chiedermi cosa stava facendo in quel momento, e
dove, con chi. Ma non mi ero più azzardato a cercarla; speravo solo che mi
telefonasse lei.
Mi ha telefonato Polidori, invece: ha detto: «Che programmi hai stasera?
Mangiamo qualcosa insieme?»
Gli ho detto: «Volentieri», anche se avrei voluto restare vicino al telefono.
Gli ho chiesto dove dovevo andare; lui ha detto che passava a prendermi. L'ho
aspettato un quarto d'ora nella piazza a imbuto.
Appena è arrivato rideva; ha detto: «Roberto, non puoi restare qui. Già lo
squallore personale di Bedreghin sarebbe abbastanza, ma questo posto è
spaventoso».
«Non è poi così terribile», gli ho detto io. «Ha un suo fascino desolato, dopo un
po' che ci stai». Dopo che Maria era salita da me, in realtà: come se la sua presenza
avesse modificato il rapporto tra quei volumi deprimenti, li avesse riscaldati con una
traccia di luce e di colore.
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